Pubblicato originariamente su Loudvision.it il 1° febbraio 2020
una corsa a ostacoli
Il regista e la sceneggiatrice esordiente Krysty Wilson-Cairns hanno condensato quei racconti in una storia originale: siamo in piena Prima guerra mondiale e un giovane soldato britannico sul fronte occidentale francese è incaricato di attraversare un territorio ostile per consegnare un messaggio al battaglione dove milita suo fratello maggiore: lui e i suoi compagni stanno per cadere in una trappola e si rischia il massacro di milleseicento uomini.
“Attraversare un territorio ostile” è un eufemismo. Per la natura compilatoria di questa sceneggiatura, lo svolgimento assomiglia di più a una corsa a ostacoli sadicamente congegnata, dove il pericolo non viene solo dalle imboscate del nemico ma anche dalle ansie dei protagonisti, dalle loro debolezze, dal loro coraggio, dall’ambiente e a volte anche dalla sfortuna.
I protagonisti di questa corsa sono due: Tom Blake (coinvolto personalmente per via del fratello in pericolo) e il suo sodale William Schofield, che per gran parte del film però è da solo, interpretati rispettivamente dai giovani attori inglesi Dean-Charles Chapman (Il trono di spade) e George MacKay (Captain Fantastic).
il pianosequenza
La loro, e in particolare quella di George MacKay, è una prova di forza fisica senza posa, asciugata da ogni dialogo superfluo (a volte con l’aggiunta dell’ostacolo linguistico, uno degli aspetti più umani e drammatici di ogni guerra territoriale) e presente letteralmente in ogni fotogramma. Il film, infatti, è raccontato in tempo reale (al netto di una sola cesura, ma organica alla narrazione) e reso in un unico, continuo pianosequenza che si districa fra gli ostacoli scenografici al pari dei personaggi che mostra.
Paradossalmente (ovvero ingegnosamente) un pianosequenza del genere è stato possibile solo grazie a un lavoro eccezionale di montaggio. Il responsabile di questa impresa è Lee Smith, premio Oscar grazie a un altro film di guerra d’avanguardia, “Dunkirk”. Come ha raccontato in un’intervista, il suo lavoro è cominciato in fase di ripresa e non di post-produzione, e le decisioni prese giorno dopo giorno sul set, da cui sarebbero dipese le riprese successive, erano irreversibili.
Il montaggio è ciò che ha reso possibile l’effetto di pianosequenza ininterrotto e il suo merito sta nell’essere riuscito a nascondere lo sforzo. Evidente e clamoroso è invece lo sforzo del guru della fotografia cinematografica Roger Deakins: con la luce dipinge lo scorrere implacabile della giornata, incornicia di aure mutevoli gli eroi, scandisce gli episodi che questi attraversano e definisce il terrificante, infernale e paradisiaco al tempo stesso, labirinto delle rovine del villaggio di Écoust-Saint-Mein in scene memorabili, da collasso della mascella.
un film militarista
“La guerra è bella anche se fa male”, sembra essere la tesi della ricerca di Sam Mendes. Il sacrificio non può essere stato vano. L’impresa è sempre onorevole. Il successo è nel destino, e è meritato. Qui siamo lontani dalla retorica pacifista che il mercato solitamente impone al cinema di guerra, e questo al nostro finissimo odorato può puzzare. D’altronde è un progetto intimo di Sam Mendes, che sembra non preoccuparsi di rendere conto a nessuno se non alla sua famiglia, e non partecipa a alcuna lotta contemporanea; è un saggio di tecnica, che prescinde dalla morale; è anche una storia vecchia di cent’anni di cui non sentiamo quasi più le conseguenze, sovrascritte dalla schizofrenia del secolo breve; è una storia innocua, alla peggio, se non commovente.
Dieci nomination agli Oscar 2020: ovvia quella alla fotografia di Roger Deakins (la cui vittoria è quasi scontata); vergognosa, invece, l’assenza del riconoscimento al montaggio di Lee Smith e all’interpretazione tenace e matura di George MacKay.